Enzo Arena, ad un passo dal professionismo
Campioni di Ieri - Pubblicato il 18 Maggio 2016 - 16:38
di Alberto Cicero – Riproduzione riservata
Campioni di ieri o campioni di oggi? II dubbio, credetemi, sorge legittimo. Enzo Arena, cinquantasei anni, uno dei più gloriosi piloti siciliani di tutti i tempi, arriva per l’intervista a cavallo di una stupenda Yamaha 1000 FZR. Casco, giubbotto primaverile, stile da campione. Come si potrebbe riconoscere così, con un abbigliamento che non è certo di moda tra i suoi coetanei?
Solo quando si sfila il casco riconosciamo il pilota che infiammava la folla della Targa Florio, strappava applausi al Nurbürgring o a Monza, che colloquiava tranquillamente con Siffert, Jacky Ickx, Rindt. Che correva nella stessa scuderia di Dan Gurney e Phil Hill. Enzo Arena.
Basta il nome a sollevare ricordi a iosa nella mente dei cinquantenni e dei quarantenni di oggi che molti anni fa, appena seduti al volante di un’auto da corsa o sportiva, cercavano di identificarsi, di calarsi nel personaggio, un autentico punto di riferimento per molte generazioni di catanesi e di siciliani.
TREDICI ANNI DA PROTAGONISTA; Forse una meteora? Bella e splendente, ma velocissima, nel firmamento dell’automobilismo mondiale? No. Enzo Arena ha svolto un ruolo da protagonista dal 1954 (anno del debutto) al 1967. Tredici anni di attività intensa, ad altissimo livello, quasi di vertice, in un’epoca in cui le vetture prototipo erano più seguite e famose anche della Formula 1. Tredici anni di gloria autentica, genuina, ben riposta. Tredici anni durante i quali infiammò i giovani di allora, che adesso si ritrovano con qualche capello grigio.
Ma lo spirito indomito di Enzo Arena non poteva lasciarlo a riposo, in pantofole. Più volte, sino addirittura all’anno scorso (ndr 1986), quando ha tentato di riprendere la strada della velocità su una Fiat Uno Turbo del Trofeo riservato alle vetture torinesi, ha ripreso il casco, i guanti ed ha ripreso a cavalcare, alla sua maniera, con grinta e stile. I risultati ottenuti lo scorso anno non furono certo eccezionali, ma non riuscirono ad offuscare la brillantezza di una stella di prima grandezza.
«Non avevo una vettura competitiva - spiega subito Enzo Arena – Non potevo disporne quando volevo, aveva mille problemi. E stato solo un mezzo disastro».
Enzo Arena, ma cosa poteva spingerla a riprendere un’auto da corsa a cinquantacinque anni suonati?
«Il mio spirito sportivo».
E mi liquida così. Con una frase che vuol dire tante cose, che ne sottintende tante altre. Facciamo un salto di qualche annetto. Trentadue anni prima il suo esordio alla Catania – Etna.
«Arrivai per puro miracolo a disputare quella gara. Come tutti i giovani era molto esuberante. Vinsi la classifica di classe battendo un pilota già affermato come Vito Coco, che poi diventò mio compagno di squadra. Gli diedi, su trentatre chilometri di gara, ventiquattro secondi di distacco. Era la vettura che usava mio padre per andare in cantiere. Lui non voleva che corressi, mi decisi, infatti, solo all’ultimo momento».
Un esordio brillante, che la portò ad acquistare subito un’altra vettura.
«Presi una Fiat 600 che feci preparare a Catania da un carissimo amico che provvide a fare diverse modifiche. Ad Avola fui secondo assoluto. Smontarono la vettura dalla testa ai piedi perché non credevano al tempo che avevo ottenuto. La vettura dovette restare a Siracusa parecchi giorni».
POLE POSITION E PALTRONIERI; Furono anni, quelli, di molti trionfi. Di prestazioni sbalorditive che cominciarono a farla conoscere un po ovunque.
«A Monza nel 1959, alla prima gara in pista,era in pole position a dispetto di ben cinque vetture ufficiali simili alla mia,una Abarth bi-albero. Ero primo anche in gara, quando mi fermarono con una scusa per far passare in testa Poltronieri e Zagato. In quella gara, ricordo, c’era anche un pilota di name Villoresi»
Qual è la gara che ama di piu?
«La Targa Florio. Ne ho fatto sette in tutto.Correvo sempre con Vito Coco, ma quasi sempre guidavo io dice ridacchiando – In queste sette edizioni ci sono alcuni dei ricordi più belli della mia carriera di pilota».
Una carriera che prese il volo quando fu assunto dall’Abarth come collaudatore.
«Presi il posto, guarda caso, proprio di Poltronieri. Era il gennaio del 1963. Appena arrivato mi mandarono in Germania, correre al Nurbürgring, poi Avus, Hockenheim e tutti gli altri circuiti. In quell’anno a Monza per tre giorni ed altrettante notti ci alternammo alla guida per ottenere dei record internazionali. Che ricordi! C’era, nell’abitacolo, solo il sediolino di guida e … trecento litri di benzina in un immenso serbatoio. Ma all’Abarth restai un solo anno anche se quando vi arrivai godevo già della massima stima».
Perche questo divorzio?
«Per un solo motivo: volevo fare il professionista e quando mi chiamo la Ford l’anno successivo, cioè nel 1964, mi resi conto che potevo appagare questo mio desiderio».
CON LA COBRA ALLA TARGA DEL ’64; Nel ’64, quindi, il lancio definitivo, e proprio alla Targa Florio.
«Arrivò dal Texas una vettura, la Ford Cobra, che sbarco all’aeroporto di Napoli e arrivò a Cerda a prove iniziate, il venerdì, quindi non potei provare. Coco, invece, fece un giro sulla vettura di Phil Hill. Quando scese disse solo: «E terrorizzante». Il direttore sportivo delta Ford, Shelby, non voleva farmi partire, così il giorno dopo Coco si presentò con due dita fasciate dicendo di non poter correre e dovettero farmi partire, ma senza che io avessi mai guidato quella vettura».
E quale fu la sua prima impressione?
«Tremenda. Appena premevo sull’acceleratore sentivo la macchina che mi schiacciava. Non riuscivo quasi neanche a metter la seconda».
Poi, invece, la grande sorpresa.
«Si, al terzo giro era il pilota più veloce della intera squadra Ford. Andavo più forte di Dan Gurney (uno talmente veloce che assomiglia a Senna) e Phil Hill. Poi c’era anche John Ireland e persino il figlio di Alfred Hitchcock. Ma ci ritirammo tutti ed a me resto il giro più veloce della gara. Fu la Corsa che mi consacrò definitivamente».
Quando parla della Targa e soprattutto di «quella» Targa, gli si accendono i piccoli occhi cerulei. Sembra di rivedere proprio in essi scene sbiadite, come in un film dell’epoca, di vetture rombanti sul rettilineo di Buonfornello, sulle strade di Cerda. Vetture che lacerano l’aria col loro ruggito, quasi come leoni nella torrida ed assolata savana. E poi un intrecciarsi di lingue, di dialetti, di ordini, di cartelli esposti dai box, di applausi della gente siciliana.
Cosa le disse, dopo la targa, Shelby?
«Niente. Da texano miliardario quale era, fumando il sigaro sotto il classico cappello mi guardava e annuiva con il capo. Soprattutto dopo che mi vide scendere dalla vettura con le mani sanguinanti. Finita la gara mi chiesero di entrare nella loro squadra. Sarei andato in Florida a fare i collaudi della vettura. Potete capire cosa provai. Purtroppo, però, cosi non fu».
Perche?
«In quello stesso anno ci fu il gravissimo incidente del Nürburgring».
Come avvenne?
«Mi chiamarono per provare la vettura Ii prima di una gara. Ricordo che c’era un solo capomeccanico, dovevo correre con la loro vettura migliore, quella di Bondurant. Avevo quasi un terrore di questi idoli, pensavo di andar piano nei loro confronti e quindi di dover spingere al massimo. Quella vettura Ii non riuscivo quasi a guardarla, aveva 540 CV. Faccio un giro e mi fermo per farmi aggiustare alla meno peggio il sediolino. Ricordo che piovigginava. Quando riuscii dai box andai furi strada alla curva chiamata Pflaurzarten, una delle più lente ma molto insidiosa».
Ricorda, dopa ventitre anni, i motivi dell’ incidente?
«No. In me il ricordo si e cancellato subito. Già quando mi ripresi non ricordavo più nulla. Mi pare, o forse me ne convinco io stesso, che non riuscivo ad ingranare una marcia».
L’impatto fu tremendo. Rimase per qualche giorno in pericolo di vita.
«Ebbi cinque volte costole rotte, una pleurite traumatica e la commozione cerebrale. Mi diedero due ore di vita. Non sentivano più il polso. Miracolosamente, invece, dopo due o tre giorni, uscii dal coma. Restai in quell’ospedale ben quindici giorni. Conservo ancora i giornali che parlavano dell’incidente ce Ii mostra – Dopo un anno ero completamente guarito».
Ma aveva già perso il posto alla Ford.
«In effetti andò in un certo modo. Al momento di pagare le spese mediche ci fu una sorpresa: il capomeccanico aveva fatto un ‘assicurazione ridicola per me. Litigai con Shelby e troncai i rapporti con loro. Altrimenti sarei tornato a correre con la Ford».
Quando riprese a correre lo fece con una Lotus Cortina.
«Si, nelle gare in salita in tutta Italia, una vettura eccezionale. Sette gare e sette vittorie. A Pergusa reclutarono tutti, anche Vaccarella per battermi. Correvano con la Giulia Quadrifoglio. Ma li fregai lo stesso. In una gara, a Bologna, battei anche Spartaco Dini. Era la BRM, la casa inglese, a prepararmi la vettura».
INCARNAZIONE DI UN SOGNO; Due anni dopo un’altra Targa Florio.
«La Porsche mi diede un vettura. Ero fuori forma, finii terzo assoluto dopo Mairesse e Lorenzo Bandini. Quel giorno Mairesse andava troppo forte anche per me. Lo capii quando mi superò e fu impossibile anche tentare di stargli dietro. Poi abbandonai completamente per andare a lavorare in Africa».
Lo ascolteresti per ore intere. La sua vita è un ottimo soggetto per un film ambientato nell’automobilismo degli anni Cinquanta e Sessanta. In pratica incarnò un sogno, quello del pilota sconosciuto e vincente. Una Cenerentola a quattro ruote in definitiva.
Non aveva voglia, nel momento migliore, di correre in Formula 1?
«No, le vetture con le quali correvo erano motto più celebri».
E quando tornava a Catania, dopo una gara, come si sentiva, di un altro pianeta?
«Ero come tanti altri, come Coco, come La Pira. Tutti uguali fra di noi».
L’incidente del Nürburgring, circuito dove sono morti moltissimi piloti. Si sente scampato ad un terribile destino o un uomo che quel giorno “perse l’autobus per la propria realizzazione”?
«Quel giorno vidi la morte e tornai indietro. Ma accettavo quella vita cosi com’era, sapevo dei rischi che comportava. Ora ho del rammarico per aver lasciato le gare, per aver abbandonato tutto».
Ma perché non giunge veramente al vertice, al limite più estremo in fatto di celebrità?
«Ho capito che avrei dovuto insistere. Adesso sono cosi, magari un po’ vanaglorioso. Allora no, ero timido, riservato, dubbioso. Non avevo nessuno vicino che mi desse i consigli giusti».
II ricordo più bello?
«Le mie partecipazioni alla Targa Florio, le mie gare più belle».
II circuito più bello?
«ll Nürburgring. La mi esprimevo al massimo. Ci tornerò con la moto».
«Adesso la moto. Iniziai proprio con le due ruote. In tutto negli ultimi anni ne ho cambiate una dozzina ed ogni anno parto per un viaggio in moto. La domenica usciamo in gruppo e i giovani vengono dietro di me per capire le mie traiettorie».
Cosa provava a stare accanto a campioni come Siffert, Rindt, Ickx?
«Niente, si discuteva, era normale. Ne sono morti tanti però. Sono rimasti pochi di quelli che conoscevo».
Ne ha rivisto qualcuno di recente?
«Hermann alla Targa Florio Storica dell’anno scorso (ndr 1986). Che festa! Dormivamo insieme ai tempi della Porsche. Ed ora con me all’Abarth. Quattro anni fa a Le Castellet vidi Forghieri. Anche lui stentava a riconoscermi, e poi Tomaini, anche lui compagno ai tempi dell’Abarth».
I piloti di oggi sono più o meno coraggiosi di quelli che furono suoi avversari?
«E’ solo questione di mezzi. Prost e Fangio sono uguali. Cambiano solo le vetture che hanno avuto a disposizione».
Adesso Enzo Arena è ufficialmente a riposo, gli basta la sua velocissima (250 orari) Yamaha 1000.
Ma sarà poi vero?